In un angolo dei giardini, sotto il grande cedro, un gruppo di ragazzi batte le mani per scandire il tempo. Ogni tanto esplodono in alte grida e ridono a crepapelle. Una compagnia mista (di ragazze e ragazzi) e questa già è una piccola anomalia: i gruppi che stazionano qui, di solito, sono prevalentemente mono-sessuali.
In terra c’è uno stereo, che ripete ossessivamente la base che detta il ritmo: tum tum tum…
È in corso una competizione tra rapper. Parte uno e spara rime e prese in giro a raffica, mentre gli altri ballano, battono le mani e lo incitano a continuare. Quando si incaglia, avendo esaurito il fiato o la fantasia, attacca l’altro, che replica alle pesanti insinuazioni dell’avversario e contrattacca, sempre al ritmo dello stereo, sempre in rima.
Si capisce subito che non c’è storia, gli avversai sono impari: per quanto il primo si sforzi, il secondo lo sovrasta e lo subissa di prese in giro: “Lui si crede molto bello, è perché non ha cervello”, si coglie tra il clamore e le risate degli amici.
Vanno avanti così a lungo, incitati dal gruppo. Qualche altro ragazzi si avvicina incuriosito, e dopo poco è anche lui lì che si muove e batte le mani al ritmo dei rapper.
Non sono amante del genere, eppure avverto una istintiva corrente di simpatia verso questi ragazzi. Ci penso e me lo spiego: in tanti anni di brutture notturne, questi due sono i primi in assoluto a dimostrare un qualche saper fare, a esibire un talento autentico. Al confronto con quel che si vede in giro di regola da queste parti, questo rap casalingo mi porta un soffio di allegria.