L’inizio non è stato brillante. Poco dopo la stazione di Verona è salito sul treno un ragazzo africano, che per farsi posto ha provato a spostare il computer col quale volevo lavorare. Gli ho detto un po’ seccato di lasciar perdere, che avrei sistemato io.
Dopo qualche minuto mi ha chiesto se parlavo inglese. Tra il suo inglese stentato e il mio anche più stentato abbiamo cominciato a chiacchierare.
Siamo in Germania?, mi ha chiesto quando non eravamo ancora a Trento. La mia risposta negativa l’ha evidentemente deluso.
Doveva avere meno di trent’anni. L’ho guardato meglio e gli ho chiesto da dove venisse. Da Khartoum, ha risposto. Stava andando a Monaco di Baviera, dove lo aspettava il fratello.
E quando sei arrivato in Italia? La settimana scorsa. Poi, di fila: non è stato facile. Sono partito mesi fa, un lungo tragitto con ogni mezzo. Anche a piedi? Oh, sì, anche a piedi, giorni e giorni di cammino. E poi la Libia. E poi il mare. In mare è stata molto dura, ma siamo arrivati tutti, per fortuna.
Sul treno, in direzione di Bolzano, avevo insomma come compagno di viaggio uno dei disperati che arrivano su quei barconi che molti razzisti da noi vorrebbero affondare, e che purtroppo spesso affondano anche da soli.
Sei sposato? No, no, ma in Germania spero di sistemarmi. A Khartoum non era vita, era impossibile restare. Nessuna speranza per me, nessun futuro.
E il tedesco lo sai? No, ma voglio lavorare e lo imparerò.
Quanto verde, ha detto a un certo punto guardando fuori dal finestrino nella campagna trentina, tra le viti e i meli. A Khartoum è tutto bruciato, non ci sono raccolti, troppo caldo, troppo secco. A luglio si superano i 44, 45 gradi, non si riesce a far niente. Si resiste solo con l’aria condizionata. Conosci l’aria condizionata?, mi ha chiesto, non immaginando forse che noi la facciamo andare a manetta per molto meno dei suoi 44 gradi.
Guardava fuori in silenzio tutto quel verde sotto la pioggia battente, e si vedeva che aveva il pensiero altrove.
Però hai studiato, l’inglese lo conosci, ho buttato lì, per riprendere il discorso e distrarlo un po’. Ho fatto una scuola tecnica, sì, e ho studiato l’inglese. E che lavori speri di fare in Germania? Non so, mio fratello ha detto che mi aiuterà, qualcosa farò. E quando mi sarò sistemato faremo venire anche nostra sorella: non può stare là.
Hai altri parenti a casa? Ci sono i genitori, ma loro hanno detto che non si muoveranno. Sono nati lì, pensano che non si abituerebbero in Europa.
Passata Trento, ancora la domanda: Siamo in Germania? Gli ho detto che eravamo in Italia, e che comunque prima della Germania, oltre il Brennero, c’è ancora l’Austria. Mi è sembrato che l’Austria non l’avesse mai sentita nominare.
E’ passata una controllora tedesca e lui ha esibito il suo biglietto. A me invece la controllora ha fatto una scenata perché il mio era un biglietto elettronico italiano, e quelle erano ferrovie tedesche. Il mio compagno mi sembrava divertito: lui appena arrivato in regola e io, italiano garantito, così malamente apostrofato.
Mi ha offerto degli snack che aveva in un sacchetto di plastica, e io a lui uno di quei succhi di frutta da passeggiata, nel contenitore di plastica. Ha strizzato gli occhi di fronte a un sapore nuovo, ma educatamente ha detto: Buono! Con un sorriso.
Mentre cincischiavo il cellulare l’ho visto alzarsi di fretta, senza una parola, e allontanarsi.
Solo qualche minuto più tardi ho visto che una folta pattuglia mista di agenti di polizia italiani e austriaci stava setacciando il treno, chiedendo i documenti ai passeggeri.
Eritreo? Venga con noi.
Un piccolo gruppo di persone giovani, seguiva, senza una parola. Tra gli altri una ragazza magnifica, con gli occhi nerissimi spaventati.
Nessuno parlava. Ma quando sono arrivati a me gli agenti hanno proseguito senza neanche degnarmi di uno sguardo. Non era agli italiani che si controllavano i documenti.
In terra, al posto del mio compagno di viaggio, era rimasto il sacchetto di plastica con gli snack e una bottiglietta d’acqua.
Dopo qualche minuto lui è tornato e si è seduto in silenzio al suo posto. Doveva essere lui quello che si era chiuso nel bagno, e che non ha aperto agli agenti.
Tutto bene? Spero, è stata la risposta.
Quelli controllavano i passaporti. Tu ce l’hai un passaporto con te? Sì, sì: ho il mio passaporto.
Certo, deficiente: non sono i passaporti che mancano a questi poveretti, ma i visti, i permessi di stare qui e di spostarsi altrove.
Per un po’ siano stati in silenzio. Poi lui è tornato a commentare il paesaggio e abbiamo scambiato qualche parola.
A un certo punto si è tirato sul capo il cappuccio della felpa. Dopo un po’, effettivamente, sono comparsi alle nostre spalle gli agenti di polizia. Tra me e me ho riflettuto sulla sensibilità da animale braccato che dimostrava il mio vicino, che avvertiva la presenza dei poliziotti con così largo anticipo rispetto a me. Chissà da quanto tempo scappa per sfuggire ai controlli di frontiera, inseguendo il sogno di arrivare da suo fratello.
La pattuglia è passata avanti, poi un agente ha avuto quasi un ripensamento: tornato indietro si è piantato a fianco dei nostri posti e ha chiesto cortesemente al mio vicino se poteva seguirlo per controlli.
Lui ha preso il suo sacchetto – non aveva altro bagaglio – e si è alzato. Ho avuto solo il tempo di dirgli Buona fortuna prima di perderlo di vista.
Mi sono guardato in giro. Chissà se tra gli altri viaggiatori dello scompartimento c’era anche chi aveva organizzato quel viaggio e magari comprato i biglietti: lo “scafista” del treno.
A Bolzano, dove sono sceso, ho visto che il gruppo degli eritrei è stato fatto scendere. Ho atteso sulla banchina per un po’, per vedere se scendeva anche il mio compagno sudanese, ma non l’ho visto.
Mi sono avviato all’uscita. Non gli ho neanche chiesto il nome, ho pensato. E un senso di disagio e di vergogna non mi ha più abbandonato.
Da pendolare ogni giorno viaggio con questi ragazzi, ma non ho mai parlato con nessuno di loro e le loro vite durano solo il tempo del viaggio. Come la mia per loro